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L'arte della molitura si configura come uno dei momenti più importanti e significativi della civiltà occidentale, anche per i molteplici interessi d'ordine sociale, politico, economico e tecnologico che ha saputo suscitare.

In realtà il mulino storico (sia ad acqua che a vento), nelle sue espressioni più complete, costituisce una tra le massime invenzioni tecnologiche non solo dell'antichità, ma anche e soprattutto dell'età medievale e moderna, periodo in cui si presenta come una meravigliosa macchina tuttofare se considerata nei suoi vari e differenziati impieghi in cui viene a operare. Innumerevoli sono le testimonianze diffuse per ogni dove da questa macchina produttiva, mostrando chiaramente come il mulino sia stato non solo una rilevante manifestazione architettonica inserita nella scena urbana o rurale, ma anche un vero e proprio operatore di trasformazioni economiche, civili, sociali e territoriali, segnando in qualche modo e per sempre alcuni aspetti della civiltà europea.
In un paese che consumava (e consuma) grandi quantità di cereali e di granaglie di vario genere come l'Italia, "acqua, macine e farina" dovevano integrarsi a vicenda e trovare nel mulino la loro sede privilegiata. Nessuna meraviglia quindi che la prevalente alimentazione cerealicola degli italiani abbia portato nei secoli passati a un'ampia e capillare diffusione del mulino, nelle sue più diverse tipologie, su tutto il territorio nazionale, almeno fino alla fine dell'Ottocento, quando la modernizzazione dei meccanismi di macinazione operata soprattutto dall'introduzione dei laminatoi, ha avuto come immediata conseguenza una più rapida produzione di farina e una veloce trasformazione del mulino artigianale in mulino-fabbrica a più piani, capace di alimentare interi centri abitati.
Da quel periodo i vecchi mugnai furono progressivamente indotti ad abbandonare l'antico lavoro, ormai non più competitivo, dando luogo a un progressivo abbandono dei mulini del passato, decretandone spesso in tal modo anche la fine strutturale per il conseguente degrado. Il presente "Itinerario illustrato attraverso gli antichi mulini italiani" vuole pertanto togliere dall'oblio alcuni fra i più significativi esempi dell'arte molitoria d'Italia, traendoli in congruo numero da tutte le regioni italiane. Nella scelta si è cercato di dare un quadro il più completo possibile delle differenziate soluzioni costruttive e tecnologiche messe in atto attraverso tutto il territorio nazionale, trascegliendole per tipologia, qualità, innovazioni e importanza, allo scopo di dimostrare come ogni mulino sia in realtà un organismo a sé stante, pur partecipando per certi aspetti comuni a particolari raggruppamenti o tipi. Il testo storico che accompagna le pregevoli illustrazioni è articolato in vari momenti d'indagine che seguono una linea cronologica. Esso è volutamente tenuto nei limiti del necessario per dare spazio sia alle didascalie esplicative di ogni soggetto sia a un necessario glossario che puntualizzi e definisca la terminologia molitoria: una bibliografia essenziale si è resa necessaria nell'intenzione di segnalare gli studi più importanti sull'argomento.

I cereali: un dono di Demetra-Cerere all'umanità
L'introduzione dei cereali nell'alimentazione umana portò a una trasformazione epocale della vita e del vivere civile, perché da una sussistenza che prima era fondata soprattutto sulla caccia, sulla pesca e sull'allevamento del bestiame, segnata da continue migrazioni, si passò con essa ad una vita stanziale e sedentaria legata all'agricoltura, con conseguente creazione di insediamenti urbani, rivoluzionando così per sempre i modi con cui l'uomo si poneva sulla terra.
Lungo fu tuttavia nel corso dei millenni il processo di manipolazione dei singoli cereali, in un continuo affinarsi delle tecniche di frantumazione, che portarono prima ad una farina rozza e ricca di impurità fino all'odierno prodotto ormai ridotto quasi ad una polvere impalpabile, passando dal rudimentale mortaio preistorico azionato dalla mano dell'uomo fino ai complessi mulini mossi dall'energia idraulica o eolica degli ultimi secoli, per finire con le moderne industrie molitorie regolate da sofisticati congegni elettronici.
Numerosi sono i frutti in grani della "pianta cereale", cioè di qualsiasi pianta erbacea delle Graminacee con frutti destinati a diventare farina. Il nome "cereale" discende da Cerere, antichissima dea romana della vegetazione, assimilata fin dal V secolo a. C. alla greca Demetra, ambedue legate al culto della terra e quindi dei suoi prodotti capaci di alimentare l'umanità: uno dei loro simboli più significativi era appunto un mazzo di spighe di grano, dichiarando così immediatamente la loro natura agraria.
Senza dubbio i "cereali" nel mondo occidentale e medio-orientale hanno avuto un'importanza essenziale nell'alimentazione, anche se le scelte di qualità e le modalità di impiego sono state talora assai differenziate nel tempo e nello spazio. Tra i cereali "maggiori", ad esempio, il frumento nelle sue varietà ha avuto la preminenza assoluta fino all'arrivo in Europa del mais o granoturco giunto dall'America dopo la sua scoperta, finendo nel tempo e in certe regioni d'Italia, soprattutto settentrionale, per dimezzare quasi la produzione del frumento.
Differente invece fu la fortuna dei cereali detti "minori", alcuni dei quali (come l'orzo, il farro, la segala, la spelta e il miglio) ebbero una certa fortuna come alimentazione soprattutto in aree aride o povere, oppure in situazioni storiche di carestia o di distruzione delle messi per cause naturali o belliche (in tal caso pure l'avena, destinata soprattutto ai cavalli, poteva divenire nutrimento anche per gli uomini). Anche altri alimenti entrarono via via nel tempo nella dieta umana. Fra questi, oltre al fagopiro o grano saraceno, coltivato in Europa a partire dal XV secolo, ricordiamo soprattutto il riso, alimento primario in Asia sud-orientale, giunto in Italia nel XV secolo, trovando poi diffusione soprattutto in Italia settentrionale e in Toscana.
Ma il mulino è stato interessato alla macinazione non soltanto dei grani appena considerati, ma, opportunamente modificato, è intervenuto a macinare prodotti oleosi, come le olive, le noci, le nocciole, le mandorle, e ancora le castagne, il lino, il girasole e altro ancora. Se poi aggiungiamo il sesamo, le lenticchie, i piselli, i ceci, i fagioli, le rape, le fave, i lupini e il companatico, vediamo che gran parte dell'alimentazione umana ha avuto nel mulino un importante protagonista. Non solo, ma le sue possibilità "frantumatrici" hanno pure avuto impieghi anche nella frantumazione e polverizzazione di numerosi materiali e inerti, utilizzati in varie attività umane.
Dal mortaio preistorico alla mola asinaria romana
La ricerca archeologica ha dimostrato come le tecniche di frantumazione e macinazione delle granaglie risalgano almeno all'età neolitica (se non prima ancora) e come la macina storica a due palmenti rotondi azionata dalla forza dell'uomo o di un animale, cioè la mola asinaria romana, debba essere considerata come il punto d'arrivo di un lungo processo di ricerca e di prove avvenute lungo millenni.
Il mortaio
Metodi rudimentali di pestatura e di schiacciamento dei cereali o delle granaglie in genere mostrano di essere presenti ancora in età neolitica (ma recenti rinvenimenti risalgono anche ad epoche anteriori).
La macinazione avveniva attraverso uno strumento di legno (ma in seguito anche di metallo), cioè di un paletto indurito nella punta inferiore (il pestello) che pestava in un contenitore cilindrico o a tronco di cono di legno o di pietra (il mortaio), scavato "a scodella" al suo interno e con pareti rilevate allo scopo di impedire ai semi di schizzare via durante la pestatura.
Con l'operazione della pestatura in un mortaio, i cereali si spezzavano, perdendo anche l'involucro o pericarpio che li circondava e le loro cariossidi così spezzate, se inumidite, potevano già entrare nell'alimentazione quotidiana.
Nel Lazio arcaico, ad esempio, prima dell'introduzione del pane si mangiava la cosiddetta puls, una farinata o polenta di farro o miglio lavorata con latte o acqua, ignota ai Greci (Plin. nat. hist. 18, 83-84).
Il levigatoio
Per giungere a una farina abbastanza raffinata e al tempo stesso per evitare che troppi grani schizzassero via durante la "pilatura" nel mortaio, si giunse ben presto al "levigatoio". Esso in sostanza non era altro che uno strumento arcaico di macinazione formato da una lastra di pietra con superficie inferiore piana e superficie superiore a conca, a sella, o con margini rialzati, che serviva da "base" fissa: su questa poi, con una pietra tondeggiante a forma di sasso rotondo o di pagnotta, o di rullo, detta "macinello", le cariossidi di grano venivano schiacciate, spostate e spappolate, trasformando i grani parzialmente spezzati in farina. Tale operazione avveniva impiegando una o due mani, stando di solito in ginocchio ed era una dura occupazione propria soprattutto delle donne: si procedeva non solo andando avanti e indietro, ma soprattutto ruotando il macinello, facendo pressione con il peso del corpo. L'uso del levigatoio, per evitare sforzi eccessivi, era di solito preceduto dalla "pilatura" dei grani, operazione precedentemente descritta, che era in genere affidata a uomini, come abbiamo precedentemente detto. In realtà il "levigatoio" appare ormai come l'antefatto della macina a due palmenti. Tale strumento di macinazione è ampiamente testimoniato nell'antico Egitto; l'operazione era quotidiana e normalmente era affidata alle schiave, come confermano le fonti scritte e figurate.
Il levigatoio a tramoggia
Una notevole innovazione tecnologica, avvenuta nel V secolo a.C. prima in Grecia e poi nell'area mediterranea (ma destinata a durare fino ai nostri giorni) è pure la "tramoggia" applicata al levigatoio, garantendo alle superfici macinanti una continuità più o meno regolare di alimentazione di granaglie. In realtà si tratta di un particolare tipo di "levigatoio", in cui il "macinello" (o pietra macinante superiore) venne prima ad avere un foro centrale (piuttosto irregolare e slargato) capace di accogliere il grano, poi finì per assumere una forma regolarizzata in cui la pietra molare presentava una cavità "a tramoggia" che si apriva verso una fessura longitudinale mediana posta in basso: si creava così un invaso per le granaglie con "bocca" superiore rettangolare ("macinello-tramoggia").
In seguito si ebbero dei perfezionamenti: prima si praticarono sulle facce minori del "macinello-tramoggia" degli incassi mediani per l'applicazione di un manubrio da azionare a due mani, poi si passò ad un "macinello-tramoggia" azionato da una leva.
Questa aveva un'estremità fornita di un perno snodabile fissato al piano del levigatoio, mentre l'altra estremità stava a una congrua distanza dal levigatoio, permettendo ad una persona di azionare il "macinello-tramoggia" che in tal modo andava avanti e indietro percorrendo un settore di circonferenza.
Di grande interesse invece è la presenza di scanalature o di solchi geometrici sulle facce a contatto dei levigatoi a tramoggia di porfido o trachite (ma non di roccia lavica) rinvenuti già nella Grecia di età classica e poi via via divenuti sempre più frequenti nei secoli successivi: tali solchi passarono in seguito sulle facce a contatto delle macine rotonde di quasi tutti i mulini, dove assunsero forme per lo più regolarizzate.
I mulini con macine rotatorie
L'energia motrice che fa ruotare la macina superiore o corrente può essere data: o da un uomo (mulino a mano), o da un animale, (per lo più un asino/a o un cavallo) che si muove in cerchio (mulino animale o a maneggio o mola asinaria), o dall'acqua (mulino ad acqua) o dal vento (mulino a vento). La forza motrice che fa muovere la macina superiore può essere
Macine rotatorie a mano, dette anche "macinini del farro". Appare probabile (Sebesta 1997) che proprio dall'ultima variante di "levigatoio a tramoggia" appena considerata, sia nata l'idea di ampliare via via il settore di circonferenza percorso dal "macinello-tramoggia", fino alla rotazione completa, dando così origine alla "macine rotatorie" cilindriche spinte a mano. Ciò sarebbe avvenuto ancora nel IV secolo a.C. nel mondo greco o ellenizzato, anche se tentativi sono stati individuati altrove.
Per quanto riguarda l'introduzione delle "macine rotatorie" nell'Italia centro-meridionale di età romana, Plinio (nat. hist. 36,135-136) afferma che Varrone indicava tali molae versatiles come invenzione della città di Bolsena (in un periodo anteriore al 265 a.C.), anzi alcune di esse si sarebbero prodigiosamente mosse anche da sole: ad ogni modo, continua Plinio, le migliori pietre molari (e non rocce) si troverebbero proprio in Italia (soprattutto nell'Etruria centro-meridionale).
Mulino a forza animale o mola asinaria di tipo "pompeiano" o "romano" con macina a clessidra. Plinio (nat. hist. 18,107) afferma che a Roma non vi erano stati fornai (pistores) fino alla guerra contro Perseo, re di Macedonia (vinto dai Romani nel 168 a.C.) e che prima i Romani facevano il pane in casa, servendosi soprattutto dell'opera delle donne, come anche ai suoi tempi era abitudine presso moltissimi popoli. In sostanza la farina sufficiente per una famiglia di modesta grandezza era stata fino allora fornita dalle "macine rotatorie" a spinta umana, cioè dalle molae trusatiles.
Ma con il sorgere dei panifici e l'estendersi del latifondo, il bisogno di farina moltiplicò grandemente, per cui fu necessario ingrandire le macine e farle muovere con costanza da un'energia più robusta e possente di quella umana. Così si ricorse ben presto all'energia animale e in particolare a quella degli asini/e (anche se non mancarono impieghi di cavalli): si giunse pertanto nella prima metà del II secolo a.C. all'impiego di una nuova grande macina (già sperimentata in Grecia e nel mondo ellenistico soprattutto nel corso del III secolo a.C.) in cui un asino (asinus molarius) o più frequentemente un''asina girava, per mezzo di un braccio a giogo, la macina (mola asinaria, da alcuni detta pure "a maneggio"), anche se tale operazione poteva essere sostituita dalla forza di uno o due schiavi, spesso per punizione. Questo nuovo "mulino a forza animale" era del tipo "con macina a clessidra" (detto anche di tipo "pompeiano" per la sua grande frequenza a Pompei o di tipo "romano").
Esso presentava una macina inferiore o "fondo" fisso, formato di un cilindro desinente in un alto cono, e una macina superiore corrente o "coperchio" a duplice tronco di cono unito per la faccia minore come avviene con una clessidra, facendo così in modo che il tronco di cono inferiore avesse un'effettiva funzione di macina corrente, mentre il contrapposto (e sovrapposto) tronco di cono, rivolto con la "bocca" verso l'alto, assumesse la funzione di capiente tramoggia. Nel punto di incontro dei due tronchi di cono stavano delle sporgenze o degli incassi semplici o doppi (e allora contrapposti) di varia forma, in cui venivano bloccati, con vari mezzi, i bracci utilizzati (diritti o "a giogo") da uomini o animali per far ruotare la macina corrente.
Per evitare che le facce macinanti del fondo e del coperchio si toccassero, furono inoltre messi in atto dei particolari espedienti con funzione di distanziatori o "temperatoie". Un muretto orlato o altri espedienti opportunamente disposti tutt'intorno alla macina inferiore avevano il compito di raccogliere la farina macinata evitando dispersioni: di solito in un'ora si potevano avere circa 7 kg di farina. Sull'impiego della mola asinaria e della precedente mola trusatilis, fa chiaro riferimento Catone il Censore (234-149 a.C.) nella sua celebre opera De agri cultura (10,4) della prima metà del II secolo a.C. in un passo in cui, tra l'altro, subito dopo ricorda numerosi mortai e pestelli di vario impiego. Poco comunque sappiamo su alcune varianti come sulla "macina ispanica" (mola hispaniensis) ricordata ancora da Catone (agr. 10,4) o sulla "macina sospesa" (mola suspensa) che Columella (II 10.35) cita nel suo trattato sull'agricoltura romana come utilizzata nella Spagna Betica per frantumare la cicerchia da foraggio.
Il mulino ad acqua
Le vicende storiche del mulino azionato dall'energia idraulica nei primi secoli della sua storia sono frammentarie e ciò ha dato origine a fraintendimenti e a luoghi comuni d'ogni genere. Una parziale rilettura delle fonti storiche e delle testimonianze archeologiche si rende quindi necessaria, pur nella sua problematicità.
Innanzi tutto la locuzione "mulino ad acqua" è equivoca: essa infatti fa riferimento soltanto al fatto che il mulino è mosso dall'energia idraulica, o meglio che l'acqua genera la spinta che fa girare le macine; nessun riferimento è invece offerto sulla tipologia dei meccanismi di trasmissione dell'energia cinetica dalla ruota mossa dall'acqua alla macina superiore corrente. Infatti, benché i sistemi per generare la rotazione della macina con l'acqua siano assai vari e complessi, condizionati dai luoghi e dai tempi, tuttavia i meccanismi di trasmissione che portavano alla macinazione antica possono in sostanza essere ridotti a due diverse modalità principali: il mulino può essere azionato da una ruota d'acqua disposta orizzontalmente, dando luogo al "ritrecine"; oppure il mulino può essere mosso da una ruota d'acqua disposta verticalmente, dando luogo al "mulino ad acqua" comunemente immaginato, detto anche "vitruviano". Ora difficilmente le fonti storiche antiche o medievali indicano la tipologia dei "mulini" da esse segnalati.
Un altro problema è di individuare dove e quando sia stato realizzato il primo mulino ad acqua "vitruviano". A nostro avviso esso non può essere nato in un ambiente culturale scarso di cognizioni meccaniche, ma in un'area dove le scienze applicate, l'acqua abbondante, il rigoglio dell'agricultura e un potere efficiente "forzarono" gli ingegni a trovare un'adeguata risposta tecnica: questo sito non poteva essere altro che Alessandria d'Egitto, capitale culturale del regno ellenistico dei Tolomei.
Qui vari scienziati specialisti in meccanismi e automatismi, come il "meccanico" Ctesibio, Filone di Bisanzio e altri, avevano già nel corso del III seolo a.C. creato nella città una vera e propria scuola di ingegneria (la prima a noi nota in assoluto), in cui i sistemi di "trasmissione diretta" o "indiretta" erano ormai ampiamente sperimentati.
Lo stesso nome greco hydralétes del mulino ad acqua (anche se non è chiaramente autodichiarante) informa indirettamente che la macchina molitoria in questione proviene da un'area di lingua greca, com'era in quel tempo l'Egitto ellenistico.
D'altra parte Vitruvio, che scrive nella prima età augustea intorno agli anni 16-15 a.C., parla del mulino mosso dall'energia idraulica immediatamente dopo aver descritto alcune ruote per il sollevamento dell'acqua (timpano, ruota idraulica a cassette, noria), concludendo l'enumerazione citando da ultime (12,5,1) certe ruote costruite sui fiumi e provviste al loro perimetro di pale, che, colpite dall'acqua, le fanno ruotare per semplice spinta della corrente senza ricorrere al peso dell'uomo; subito dopo continua: "Anche i mulini ad acqua sono fatti girare su indicazione del medesimo principio idraulico...", dando chiaramente ad intendere come la nuova "macchina molitoria" non costituisse altro che una variante industriale della medesima ruota d'acqua considerata in precedenza. Insomma l'invenzione del mulino a ruota d'acqua verticale è avvenuta attraverso successivi passaggi e modifiche di ruote utilizzate in gran parte per l'irrigazione (come avveniva soprattutto in Egitto). Tuttavia è probabile che la sua diffusione sia avvenuta per gradi, prima nei regni contermini di cultura ellenistica e poi nelle rimanenti terre del mondo romano con preferenza di quelle dotate di grandi fiumi non a carattere torrentizio.
La prima e più antica menzione di un "mulino ad acqua" o hydralétes è quella del celebre geografo Strabone di Amasia nel suo famoso trattato di Geografia (XII 30) messo a punto nel 17 d.C. e negli anni successivi: egli parlando del centro urbano di Cabira nel Ponto (regione nord-orientale dell'Asia Minore) posto poco lontano dalla sua città natale, ricorda che qui "erano stati realizzati" il palazzo reale di Mitridate VI Eupatore (salito al trono negli anni 121-119 e morto nel 63 a.C.), il "mulino ad acqua", il serraglio per le bestie, le vicine riserve di caccia, e infine le miniere, tutte realizzazioni distinte l'una dall'altra, che porterebbero a considerare l'hydralétes un manufatto a sé stante, forse a ruota verticale, costruito in piena prima metà del I secolo a.C., ma in area periferica del mondo greco (e quindi con un presumibile ritardo di innovazione tecnologica).
Di carattere poetico e d'intonazione moralistico-sociale è pure l'immancabile citazione del mulino ad acqua (considerato come strumento di liberazione servile) nel celebre epigramma dell'Anthologia Palatina (IX, 418), attribuito a Antipatro di Tessalonica e databile forse nel 5 a.C. (comunque in piena età augustea). In esso la dea Cerere, che fino allora si era servita delle mani delle donne per macinare il grano, ordinerebbe ora alle Naiadi (ninfe delle fonti, dei fiumi e, in genere, delle acque) di sostituire le povere schiave nel lavoro, slanciandosi fino alla sommità di una ruota: questa finirà per girare attorno al proprio asse, il quale, provvisto di "raggi", azionerà con forza la macina. Sotto il profilo storico è interessante notare come le Naiadi (cioè l'acqua) giungano alla ruota d'acqua, "per di sopra", quasi che il poeta facesse riferimento a un mulino mosso da una ruota verticale e non da una ruota orizzontale.
Che la nuova macchina molitoria ad acqua non avesse eliminato, ma soltanto convivesse con la mola asinaria o con quella a mano, è pure provato dalla frequente presenza di quest'ultime a Pompei. Comunque questa preminenza dei vecchi sistemi di macinazione già nella seconda metà del I secolo d.C. sembrerebbe incrinata. Plinio il Vecchio (nat. hist. 18,97), che scrive fra il 50 e il 70 d.C., afferma infatti come ai suoi tempi per la macinazione del grano la maggior parte d'Italia adoperasse o il nudo pestello, o ruote fatte girare dall'acqua (quas aqua verset) e soltanto occasionalmente le macine tradizionali.
Appare ormai sicuramente provato anche dagli scavi archeologici, che Roma, già in età imperiale e probabilmente nel corso del II secolo d.C. abbia cominciato a dotarsi di mulini ad acqua scegliendo il colle Gianicolo sulla sponda destra del Tevere, come una delle sedi preferite dai mugnai che qui misero in azione gran parte dei loro mulini ad acqua. Procopio di Cesarea nella sua celebre opera, nota come Guerra Gotica (un conflitto tra Bizantini e Goti durato fra il 535 e 553 d.C. e al quale egli partecipò come addetto alla persona del grande generale bizantino Belisario), parlando appunto di tale colle (Bell. Goth. 1,19), afferma che su esso "anticamente" erano stati edificati "tutti i mulini della città", dato che qui era stato portato, fino alla sommità del Gianicolo, l'Acquedotto di Traiano (109 d.C.), facendo poi scendere lungo il pendio del colle e in possente cascata una gran quantità d'acqua. Egli poi continua affermando che, proprio per que'''''sto motivo, gli antichi Romani vollero circondare il colle e la riva del fiume con mura, affinché nessun nemico potesse mai distruggere i mulini o passare il fiume Tevere. A tale scopo avrebbero dunque costruito un ponte (cioè il Ponte Aurelio, databile nel II o III secolo, oggi nel sito del Ponte Sisto). Ultimamente, nel corso di scavi archeologici all'interno di Porta San Pancrazio (già Aurelia o del Gianicolo), nel punto più alto del colle (82 m) sono stati rinvenuti resti dei mulini appena considerati (van Buren, Stevens 1915-1916; Bell 1993).
Una situazione analoga a quella della città di Roma sembrerebbe essersi verificata anche nella Gallia meridionale, presso Arles. Qui, probabilmente ancora nel II secolo d.C., a circa 10 km a oriente della città, nel sito dell'attuale centro di Barbegal, sfruttando la pendenza di circa 30° di un colle, furono messi in opera, lungo un dislivello di 18,60 m, ben otto coppie di mulini per un totale di 16 ruote (con diametro di 2,20 m e spessore di 0,70 m): esse erano alimentate "per di sopra" dall'acqua proveniente da due acquedotti accostati. Secondo calcoli approssimativi pare che questo sistema di mulini, opera probabile di Candidio Benigno, un ingegnere del luogo, producesse in 10 ore giornaliere circa 2800 kg di farina, una quantità a livello "industriale" non solo per quei tempi (Sagui 1948; Amouretti 1992).
Comunque alcune delle prime testimonianze archeologiche di un mulino ad acqua romano (forse "a ritrecine"), quasi sicuramente opera di legionari, sono state rinvenute lungo il Vallum Hadriani in Inghilterra.
Sappiamo infatti che sotto la torre costruita sopra la spalla sinistra del Secondo Ponte sul fiume North Tyne a Chesters (ricostruito forse negli anni 207-208 d.C. ai tempi dell'imperatore Settimio Severo) vi era una doccia o canale artificiale coperto che alimentava un mulino; così pure la pila a oriente del Secondo Ponte di Willowford nella contea di Cumbria (databile forse nel periodo antoniniano, cioè intorno alla metà del II secolo d.C.) creava sul fiume Irthing una stretta, allo scopo di formare una corrente d'acqua utilizzata per azionare un mulino destinato alla macina di granaglie; un terzo mulino (ma non sul Vallum) pare infine che fosse in azione di fronte alla porta antica della città di Cirencester (Gloucestershire) nel sito del Ponte sul fiume Churn (Galliazzo 1995).
Nel III secolo d.C. la forte ripresa di mulini ad acqua sul Colle Gianicolo a Roma generò ben presto la ribellione dei proprietari dei vecchi mulini a forza animale o servile. Ma il problema ormai era diventato generale tanto che nel Digesto di Ulpiano (XXXIV 2,24), databile nel 211 d.C., appaiono precise norme sull'utilizzazione delle acque (e quindi anche sugli impianti idraulici connessi).
Passando nel IV secolo d.C. le testimonianze archeologiche e monumentali sul mulino ad acqua si fanno sempre più intense: in questo periodo l'uso delle acque per impianti molitori comincia a essere espressamente regolato da interventi legislativi. L'imperatore Diocleziano nel suo Edictum de pretiis (15,54) del 301 d.C. stabilisce il costo del mulino ad acqua (mylos hydraletikós) in 2000 denari (ma se il mulino era azionato da un cavallo 1500 denari, se da un asino 1250, quello "a mano" soltanto 250 denari), mentre sulla fine del secolo nel 395 d.C. gli imperatori Onorio e Arcadio dettano precise norme perché le acque dei mulini siano deviate senza commettere abusi (Codex Theod. XIV, XV 4).
Ma intanto sempre nel corso del IV secolo l'impiego e la diffusione del mulino ad acqua si fanno sempre più ampi: ai tempi di Costantino l'Historiarum Compendium ricorda il viaggio del persiano Metrodoros in India, dove poi avrebbe costruito alcuni mulini, strutture ancora ignorate dai Bramini; nel 325 d.C. un'iscrizione della città di Orcistus in Frigia fa riferimento a un copioso numero di aquimolae, cioè di mulini ad acqua, lungo un loro fiume (Chastagnol 1981); nell'Opus agriculturae (1,41) di Palladio Rutilio Tauro Namaziono, scrittore della Gallia vissuto negli ultimi sessant'anni del secolo, vengono citati dei mulini che sfruttavano l'acqua delle terme di una villa rurale; infine intorno al 370-371 d.C. il poeta romano Ausonio di Bordeaux nel suo idillio Mosella (v. 362-364) ricorda sul fiume Ruwer (Erubris), affluente della Mosella, le mole per il grano mosse con rapidità dalla corrente, nonché un sega idraulica per il taglio del marmo.
Al medesimo secolo sembra pure appartenere il mulino di Venafro sul Tuliverno con una ruota d'acqua di circa 1,85 m di diametro, provvista di 18 pale alimentate da un acquedotto: la ruota compiva 46 giri al minuto producendo circa 150 kg di farina all'ora (Jacono 1939). Nel V secolo la presenza del mulino ad acqua continua sempre più a estendersi: nel 448 d.C. si ricorda, tra l'altro, una tra le prime testimonianze di una corporazione di mugnai, mentre nel 450 abbiamo nella Vie des péres du Juras indizi della presenza di un mulino presso religiosi (Panduri 2001). Ad Atene, nell'Agorà, nell'anno 470 d.C. veniva messo in opera un mulino poi distrutto nel 582 a seguito di un'invasione slava (Parsons 1936).
La crescita dei mulini è testimoniata con frequenza anche nel VI secolo in Cassiodoro (var. 3,31; 11,39,2), in Gregorio di Tours (Bloch 1935) e nella Lex Salica (XXII, 2).
Interessante è pure il fatto che nella Regola di San Benedetto (cap. XVI) del 540 un mulino ad acqua sia previsto all'interno del monastero.
Ancora in questo secolo incontriamo la più antica notizia di "mulino natante" per di più collegato con un ponte. È proprio un testimone oculare, colto ed esperto, cioè Procopio di Cesarea (Bell. Goth. 1,19), che si sofferma a descrivere le circostanze di tale "invenzione" dovuta a necessità. Infatti nell'anno 537, durante la guerra dei Bizantini contro i Goti, il re goto Vitige pose l'assedio a Roma e tra le prime operazioni offensive fece tagliare tutti i quattordici acquedotti allora funzionanti, tra cui l'Acquedotto di Traiano che alimentava i mulini ad acqua posti sul pendio del Gianicolo, interrompendo la fornitura di farina per tutta la città di Roma. Il comandante delle armate bizantine Belisario, vedendo che era impossibile far andare i mulini anche con animali, ormai senza commestibili, escogitò un nuovo meccanismo molitorio mai visto prima: fece tendere al massimo delle funi da una riva all'altra del Tevere proprio a monte di un "ponte connesso alla cinta muraria", cioè probabilmente a monte del Ponte Aurelio nel sito dell'attuale Ponte Sisto (Galliazzo 1995), poi fece legare due barchette l'una presso l'altra alla distanza di due piedi, proprio nel punto dove la corrente dell'acqua scendeva più violenta da un'arcata del ponte; quindi in ogni barchetta pose due mole e tra queste fece installare il congegno che le faceva girare; dopo questo legò in serie altre barchette, collegandole con le altre, ma poste dietro, mettendovi dentro i consueti congegni, sicché l'impeto progressivo dell'acqua faceva girare tutte le macine una dopo l'altra: in tal modo procurò tanta farina quanta era necessaria per tutta la città di Roma. E da allora, informa sempre Procopio, i Romani continuarono a utilizzare quelle macine.
Da tutte le testimonianze finora riportate (e sono soltanto una piccola parte delle circa ottanta a noi note) appare con evidenza come sia inconsistente l'ipotesi da molti (ma non da tutti) formulata che il mulino ad acqua in età romana non abbia avuto la diffusione che meritava: in realtà essa era costosa e complessa, si adattò in vario modo ai tempi ed ebbe sviluppi altalenanti giungendo talora a esiti quasi industriali, come a Roma e a Barbegal.
Le macchine molitorie ad acqua sfruttarono corsi d'acqua e acquedotti, talora si volsero ad usi diversi da quello di mulini per cereali (frantoi, seghe idrauliche o altro): la loro convivenza con il mulino a mano o a energia animale non era poi tanto diversa da quella che si aveva fino a mezzo secolo fa in molte regioni d'Italia e d'Europa isolate o povere.
In pratica tale sviluppo del mulino ad acqua proseguì ancora nei secoli successivi: è presente nell'editto del re longobardo Rotari del 643 (capitoli149-151) e in molti siti dell'VIII secolo e del IX-X secolo, trovando un particolare incremento dall'XI al XII secolo in poi, soprattutto perché, a partire ancora dal X secolo, moltissimi signori si servirono dei loro diritti di coercizione per obbligare i propri sudditi a usare soltanto i loro mulini (esercitavano cioè il loro potere di "banno"): a tale scopo si preoccupavano pure di fare spezzare le mole a mano dei loro sudditi, garantendosi entrate sicure.
È questo un periodo in cui non c'è possedimento, castello, convento o abbazia o centro abitato posto presso un fiume che non comprendesse spesso un mulino ad acqua. Gli ordini religiosi monastici come i Cluniacensi (X secolo) e i Cisterciensi (fine XI secolo), contemplavano quasi sempre nelle loro abbazie la presenza di almeno un mulino, creando apposite cariche per il suo funzionamento e per le sue attività collaterali.
Alla fine dell'XI secolo nel 1086 Guglielmo il Conquistatore censiva in Inghilterra ben 5.864 mulini (Fink 1960; Madureri 1995) e la situazione non era molto diversa in altre aree d'Europa, soprattutto in Francia. In Italia la diffusione del mulino era notevole, soprattutto nei centri urbani retti da comunità libere: gli Statuti di numerosissimi Comuni contemplano quasi sempre una normativa riguardante i mulini, i mugnai e i loro rapporti con il territorio e la società.
D'altra parte nessuno poteva ignorare il mulino quale importante ed essenziale macchina di produzione non solo alimentare, ma anche industriale. Nei secoli successivi il mulino ad acqua (ma dal XII secolo anche quello a vento) continuò la sua funzione di macchina primaria per l'alimentazione, l'industria, le modificazioni territoriali, condizionando con la sua frequente presenza non solo il paesaggio, ma anche ogni aspetto della vita civile ed economica, attirando sempre più l'attenzione degli studiosi soprattutto, a partire dal Cinquecento, quando vennero pubblicati i cosiddetti "Teatri di macchine", che descrivevano macchine talora innovative accompagnandole spesso con illustrazioni. Fra questi ricordiamo il Ramelli (1588) con ben 19 illustrazioni di mulini (fra cui uno a vento): questi, tra l'altro, anticipando i tempi, mostra il primo sicuro esempio di mulino "a laminatoio" funzionante a mano; oppure, più tardi (nel 1607) lo Zonca che raffigura mulini di ogni tipo; per non parlare dei numerosi scritti sui mulini a vento opera soprattutto di scrittori o ingegneri fiamminghi o olandesi.
Una tale fortuna del mulino ad acqua (o a vento) venne un po' meno, ma non fu subito incrinata, nella seconda metà del XVIII secolo, quando lo scozzese James Watt costruì nel 1782 la prima motrice rotativa a vapore per mulino da grano.
Nacque così, dopo alcune incertezze, il "mulino a vapore" che nel corso del XIX secolo e ancor più nel XX secolo finì gradualmente per soppiantare (unitamente all'impiego del laminatoio) il mulino ad acqua o a vento, ormai sempre più relegato ad essere una singolare testimonianza storica del passato, monumento stupefacente di un tempo che oggi non c'è più.
Tipologie dei mulini ad acqua
I principali meccanismi di funzionamento che portano alla macinazione sono in sostanza due: quelli del mulino a ruota orizzontale (o a ritrecine) e quelli del mulino a ruota verticale (e con quest'ultimo tipo vanno pure i mulini con "ruote pendenti" e quelli con "ruote galleggianti"). Su questi tipi possiamo trarre ulteriori esemplificazioni e integrazioni dalle didascalie delle illustrazioni e, soprattutto, dalle voci dell'annesso glossario.
Ruota idraulica orizzontale o "a ritrecine" (detto anche "previtruviano" o nordico o norvegese o scandinavo). Nella sua concezione si tratta di un mulino elementare e semplice: una piccola ruota provvista di palette perimetriche inserite o calettate verso l'estremità di un palo regolarizzato viene posta orizzontalmente entro una corrente d'acqua, mentre una macina corrente viene collegata con l'altra estremità del palo; l'acqua fa girare la ruota e con essa la macina corrente. Questa macchina molitoria "a trasmissione diretta del movimento" è di facile intuizione ed è assai probabile che proprio per questo abbia preceduto il mulino a ruota verticale (è stata rinvenuta infatti nello Jutland e in altre terre nordiche ancora in età preromana, nonché in Cina). Tuttavia tale versione "primitiva" presentava vari difetti. La ruota doveva essere relativamente piccola e quindi era provvista di scarsa energia idraulica, finendo per essere incapace di far ruotare una macina di grandi proporzioni. Era poi troppo lenta perché a un giro della ruota corrispondeva un solo giro della macina. La stessa disposizione delle palette (in verticale od oblique) non garantiva una felice e sicura rotazione della ruota stessa. La sua verticalità obbligava poi ad una macinazione in verticale e sull'acqua, creando parecchi problemi di ordine statico e funzionale (grano e farina venivano a trovarsi "sopra" la ruota). In pratica l'unico vantaggio consisteva nel fatto che costituiva l'unico mulino possibile in zone aride o montuose, o comunque attraversate da corsi d'acqua a carattere torrentizio o di modesto volume, anche se per metterlo in opera era necessario ricorrere a opportune canalizzazioni o a riserve d'acqua che garantissero un'efficiente rotazione della ruota. La soluzione definitiva a tutti questi problemi si ebbe, a quanto sembra, nel corso del Medioevo, quando la primitiva ruota d'acqua fu gradualmente sostituita con il "ritrecine".
Ruota idraulica verticale (detto anche storico o vitruviano e chiamato nel mondo greco-ellenistico hydralétes). Si tratta di un mulino, assai evoluto e "a trasmissione indiretta", che Vitruvio chiama hydraleta (ma forse si tratta di una moderna restituzione testuale) e che descrive chiaramente nel suo celebre trattato De architectura (10,5,2), dando per certo che era ampiamente noto nel I secolo a.C. In questo caso il meccanismo condizionante, che portava alla rotazione della macina, era costituito di due diversi elementi rotanti: una grande ruota con denti presso la sua circonferenza detta "lubecchio" e una piccola ruota cilindrica detta "rocchetto" o anche "lanterna" con tanti equidistanti fuselli perimetrici nel cui asse stava l'albero della macina rotante. Collegato e posto in rotazione attraverso un fuso assiale con la ruota d'acqua (situata in genere "fuori" dell'edificio molitorio), il lubecchio ad ogni giro imboccava con i suoi denti l'interspazio tra i fuselli, moltiplicando notevolmente le rotazioni del "rocchetto" e con esso quelle della macina corrente. I vantaggi di questa macchina molitoria erano notevoli: una grande energia idraulica che permetteva di impiegare macine di rilevanti proporzioni; la possibilità di far girare a volontà la macina corrente sulla macina dormiente, raggiungendo così il massimo dell'efficienza; la sua disponibilità a risolvere eventuali problemi costruttivi del mulino stesso; ed infine la sua plurifunzionalità capace di dare risposte diverse da quelle molitorie, sicché, dopo alcune opportune modifiche, al posto della macina potevano stare frantoi per le olive, gualchiere, "battiferri" o altro ancora (possibilità che peraltro si avevano pure, ma in grado minore, anche con l'introduzione delle forme più evolute di "ritrecine").
Quanto alla posizione nel territorio i mulini ad acqua possono essere:
Mulini di terra, se sistemati in edifici di muratura o di legno lungo corsi d'acqua oppure in siti forniti d'acqua per mezzo di opportuni canali di derivazione (gore, acquedotti o altro). Sono mulini di terra anche quelli che sono costruiti attraverso tutto un corso d'acqua o per un solo tratto, o ancora quelli che sono posti, anche con parti aggettanti ("sospese") sopra un ponte sfruttando tutte o parte delle sue strutture portanti (in questo caso quasi sempre il transito è garantito, ma non sempre esso è agevole).
Mulini natanti, se posti su galleggianti sia fissi che mobili dentro un fiume o su uno specchio d'acqua. Tra questi si distinguono quelli che sfruttano in vario modo l'energia idraulica creata dallo sbarramento di un ponte e dalla conseguente "corrente" che si forma tra due pile (proprio come a Roma aveva fatto Belisario nel 537 d.C.). Non esisteva infatti città medievale che non mettesse a frutto la presenza dei ponti urbani per ancorare almeno un mulino natante di solito a valle di una o più arcate. Tra i ponti romani utilizzati in età medievale e moderna a tale scopo possiamo ricordare, ad esempio, a Roma il Ponte Cestio, il Ponte Fabricio, il Ponte di Probo, o a Padova il Ponte Molino, oppure a Verona il Ponte della Pietra, ma ciò avveniva anche con numerosi ponti medievali o moderni, con un elenco che potrebbe continuare a lungo (Galliazzo 1995).
I mulini natanti potevano essere costituiti di un solo barcone con due ruote laterali (mulino natante "a doppio ingranaggio"), soluzione un po' precaria, oppure, assai spesso, erano formati da due natanti affiancati e tenuti a congrua distanza l'uno dall'altro da un'opportuna travatura, tra la quale veniva sistemata la ruota d'acqua (mulino natante "a ingranaggio semplice"). Sull'argomento si vedano nel Glossario le voci: sandone, "mulinassa", "mulinella".
Mulini a marea, se sono azionati dal movimento delle maree, particolarmente imponenti lungo le coste atlantiche. In pratica sono costruiti su una diga o "passonata" che chiude un'insenatura anche modesta formando un bacino con paratie presso il mulino: si lascia entrare l'acqua portata dall'alta marea, badando a chiudere immediatamente le paratie; si attende l'arrivo della bassa marea e, aperte le paratie, si sfrutta il salto d'acqua tra il bacino e il mare, azionando così il mulino. Furono proposti ancora prima dell'anno Mille da un geografo arabo. Uno è ricordato a Dover in Inghilterra nell'anno 1086. Lungo le coste della Bretagna nel corso dei secoli ne furono messi in opera circa un centinaio (Madureri 1995). Alcuni furono costruiti anche nel Veneto lungo la costa adriatica, prendendo il nome di "aquimoli" (o aquaemolae): uno è ricordato a Forcona nel 1014, mentre nel 1044 un documento del monastero di San Giorgio della Pigneda ne ricorda altri due (Sebesta 1997).
Posizioni delle ruote ad acqua
Le ruote erano in genere costruite impiegando quasi sempre il legno, anche se questo, soprattutto negli ultimi due secoli, è stato frequentemente sostituito dal metallo (soprattutto dal ferro), oppure si è data alla ruota una struttura mista con parti di legno e parti di metallo (in particolare le pale sono spesso in lamine di ferro per lo più incurvate). L'applicazione delle "pale" alla rispettiva corona è quanto mai varia e spesso dipende dalle tradizioni locali.
Quanto alle posizioni delle ruote rispetto all'acqua, tenendo presenti le più comuni, solitamente possiamo avere:
• "ruote verticali", che in genere vengono azionate: "per di sotto" (in questo caso l'acqua colpisce le pale in basso facendo assumere alla ruota una rotazione antioraria); "per di sopra" (in questo caso la ruota si presenta quasi sempre "a cassette", o per dirla con un termine cinquecentesco "a copedelli" o "copeélli" e l'acqua, convogliata da una doccia, colpisce in alto le pale "a cassetta", facendo assumere alla ruota una rotazione con verso orario: l'energia rotante è dovuta sia alla spinta dell'acqua, sia al peso di questa nelle cassette e proprio per questo viene anche detta ruota d'acqua "di carico"); "di fianco" (in questo caso l'acqua finisce contro un fianco della ruota con l'aiuto di un distributore battente provvisto di direttrici, sicché la ruota assume una rotazione con verso orario rimanendo un po' sommersa).
• "ruote orizzontali" o a "ritrecine": si tratta di ruote di modesta proporzione provviste nel loro asse di un fusto verticale irrobustito lungo il perimetro da un mozzo, in cui sono calettate numerose palette spesso conformate esternamente a cucchiaio o a semicucchiaio (anche doppio).
Tali ritrecini (chiari antefatti dell'odierna turbina) devono ricevere l'acqua quasi sempre in caduta dall'alto, facendo in modo che essa finisca obliquamente "per di sopra" sulle palette (che proprio per questo assumono un orientamento obliquo). Per accelerare al massimo la loro rotazione i ritrecini, utilizzati soprattutto in aree povere d'acqua, hanno spesso bisogno di un "bottaccio" di raccolta a monte piuttosto soprelevato (talora più di 10 metri) da cui l'acqua viene fatta scendere (a guisa di "condotta forzata") attraverso una doccia o condotto chiuso di muratura, conformato spesso "a tromba" e sistemato assialmente in un edificio per lo più a torre. In tal modo la forza di caduta dell'acqua è moltiplicata e l'effetto a turbina garantisce la macinazione (che spesso è "a raccolta").
• "ruote pendenti" sono ruote a pale radiali, spesso usate nei mulini natanti, che messe contro una corrente fluviale sfruttano la differente altezza dinamica fra monte e valle della ruota.
• "ruote galleggianti", a tamburo cilindrico allungato; sono una variante delle ruote "pendenti".
Il mulino a vento
Pare che i primi mulini a vento siano apparsi in Persia ancora nel VII secolo, ma la documentazione è troppo precaria per essere credibile. Altro luogo comune è che essi siano stati impiegati nell'Oriente islamizzato intorno al Mille, ma poiché l'installazione di uno di essi sotto le mura di Acri in Siria nel 1189 fece credere alla gente del luogo che esso fosse un mostro inusitato, è presumibile che la nuova macchina molitoria mossa dall'energia eolica fosse ancora sconosciuta in quelle terre.
In realtà le prime testimonianze sicure di mulini a vento potrebbero essere datate nel penultimo ventennio del XII secolo, a partire dai primi certi esemplari a noi noti del 1180, situati a Ste-Mère-Eglise e presso Liesville in Normandia, o dal mulino a vento vicino a Bristol del 1181, per poi trovare in pochi anni una rapida diffusione in varie località della Francia, dell'Inghilterra, della Fiandra, dell'Olanda e della Germania, terre da cui si sarebbero poi ben presto diffusi in gran parte d'Europa.
Tanta fortuna sarebbe dovuta sia alle nuove possibilità di insediamento della nuova macchina ad energia eolica, sia al fatto che le leggi medievali che avevano formulato il "diritto d'acqua" (e quindi anche quello di costruire mulini), non contemplavano per nulla il "diritto d'aria", anche se ben presto quest'ultimo rientrerà tra i diritti "bannali", seppur tra molte difficoltà (Rivals 1987).
In Italia i mulini a vento non incontrarono grande fortuna. Nell'Ottocento si ebbero alcune realizzazioni nel Livornese, a Venezia e soprattutto in Sardegna e in Sicilia (Madureri 1995): oggi sono molto pochi e utilizzati pressoché totalmente nelle saline siciliane.
I meccanismi molitori del mulino a vento sono in pratica del tutto uguali a quelli di un mulino ad acqua con ruote verticali ma con disposizione "rovesciata", la quale dà luogo ad almeno tre varianti che lo distinguono da quello ad acqua: l'energia eolica sta in alto ed è raccolta da una ruota "a vento"; questa, con pale conformate ad "ali" (si veda Glossario), fa ruotare il "fuso", cioè l'albero rotante porta-vele, collegato (dentro il mulino) con un lubecchio e un rocchetto che fanno girare l'albero della macina posta in basso; la copertura a calotta o a cuffia del mulino è girevole per assecondare con le ali la direzione del vento.
Tipologicamente i mulini a vento sono relativamente vari, ma essi possono essere ricondotti a due tipi principali:
• "il mulino di legno su palo" (detto anche "a becco aperto" o "mulino a capra") in cui la cabina variamente conformata e contenente le macchine ruota attorno a un solido palo o colonna adeguatamente rinforzato che fa da sostegno (di esso esiste pure la variante con "colonna vuota e becco chiuso");
• e il " il mulino a torre" forse più tardo (fine del XIII secolo), in cui la torre cilindrica o a tronco di cono o poligonale (di muratura o di legno) contiene gran parte delle macchine ed appare sormontata da una cuffia (o cappello o cappa) girevole che sostiene il gruppo delle ali.
Sull'impatto che ha avuto il mulino a vento nel paesaggio, nell'arte e nell'immaginario collettivo vi è un'abbondante letteratura: esso è di una tale evidenza da non meritare altre parole.
Il laminatoio e il mulino-fabbrica
Una rivoluzione decisiva nella storia del mulino per cereali ha avuto inizio quando alle millenarie macine a due palmenti si sono sostituiti i laminatoi, per di più azionati da macchine a vapore o da motori mossi con l'elettricità: è stata la fine del mulino antico e dei suoi meccanismi supercollaudati.
Un laminatoio embrionale di ferro con piccola tramoggia e funzionante a mano (il primo in assoluto) era stato descritto da Agostino Ramelli ancora nel 1588 (Ramelli 1588), ma esso non ebbe seguito. Poco sviluppo ebbero alcuni tentativi avvenuti nel Settecento in Inghilterra e in Francia.
Si dovette attendere l'anno 1821, perché questa geniale intuizione prendesse corpo in Svizzera (ma è nell'anno 1832 che qui si dà inizio a una sicura macinazione). Tuttavia fu soltanto dopo una serie incredibile di trasformazioni e di perfezionamenti quasi sempre "brevettati", avvenuti soprattutto tra gli anni 1870-1880 (particolarmente importanti furono quelli di Friedrich Wegmann nel 1873 e nel 1874), che si giunse alla vera e propria "macinazione a cilindri". Questa, tra l'altro, mostrò subito di presentare numerosi vantaggi rispetto a quella "a macine": velocità, grande produzione, logoramento scarso, manutenzione poco costosa, facilità di esercizio, poco spazio per la macchina, farine più fini, lieve surriscaldamento.
Il laminatoio in sostanza era costituito di due rulli (prima di porcellana e poi quasi sempre di ghisa) a superfici lisce o rigate, che accostati e girando in senso contrario riducevano le granaglie nella granulazione richiesta, dopo che queste erano giunte nell'interspazio voluto tra i due corpi rotanti.
Come ben si vede in questa macchina era scomparsa la millenaria rotazione orizzontale delle macine antiche che offriva una macinazione "bassa", "rapida" e "a fondo": il lento giro delle macine frantumava tutto, dando un miscuglio di farina, crusca e cruschello che poi neppure un perfezionato buratto riusciva a dividere, per cui la farina presentava sempre delle impurità.
Tanto più che tale operazione era relativamente facile per i grani teneri, ma riusciva con difficoltà per i grani duri, per cui questi venivano preventivamente sottoposti a bagnatura, con gravi rischi per la successiva conservazione delle farine.
Con il laminatoio invece la rotazione dei rulli era verticale e lo schiacciamento con relativa frantumazione delle granaglie avveniva gradualmente (passando cioè più volte tra due rulli), sicché la macinazione era "alta", "tonda", "graduale o progressiva", permettendo, nei vari passaggi, di togliere gradualmente e senza surriscaldamento la crusca e il cruschello, per dare poi una farina pura e notevolmente più conservabile.
La straordinaria quantità di farina che il nuovo sistema di macinazione preparava in poco tempo portò poi a rivoluzionare le possibilità di stacciatura del buratto, per cui dopo vari tentativi, si giunse al "Plansichter" (inventato nel 1887 da un mugnaio ungherese), un sofisticato buratto industriale che attraverso un doppio movimento di rotazione e oscillazione (unitamente a un efficiente sistema di veli-setacci) riusciva a "classificare le farine", suddividendole secondo la grossezza dei granelli.
La moltiplicazione dei laminatoi e dei Plansichter in uno stesso mulino, la grande quantità di grano consumata, la rapidità di lavorazione, la presenza di cinghie di trasmissione sia per trasportare il grano sia per farlo salire e scendere dall'alto (per mezzo di elevatori a tazze) nei vari laminatoi e Plansichter (permettendo di alternare rimacinature con burattature), le macchine a vapore o elettriche utili per il loro funzionamento, furono tutte concause che obbligarono ad abbandonare il tipico mulino del passato, posto in genere su due o tre livelli e di proporzioni piuttosto modeste, per dar vita a costruzioni molto più imponenti e a più piani, con depositi e silos di vario genere, veri propri mulini-fabbrica a livello industriale, come ben presto mostrarono di essere i Mulini Certosa di Pavia (fig. 13) e il famoso Mulino Stuckj di Venezia, che dà sul Canale della Giudecca, costruito, a partire dal 1895, dall'architetto Ernest Wullekopf con impronta tipicamente nordi'ca di gusto neogotico e considerato sulla fine dell'Ottocento come "il più bel molino" di tutta Italia (oggi in fase di recupero, ma con altra destinazione).
La storia dell'evoluzione del mulino industriale non è comunque finita: innovazioni continue nelle macchine e nei sistemi di funzionamento e di controllo con mezzi elettronici sempre più sofisticati sono ormai impiegati dai maggiori mulini industriali in ogni parte della terra.

 

I Mulini in Italia
di Vittorio Galliazzo